Articolo dell'Avv.Luigi Grillo pubblicato il 14.10.2021 in Partner 24ORE Avvocati dal titolo "La difesa della casa più appassionata della storia"
La difesa della casa più appassionata della storia
“Cicero pro domo sua”, è noto, è un’espressione di carattere dispregiativo, alludendo alla difesa esclusiva degli interessi personali che chi riveste una carica pubblica, sfruttando la sua posizione di potere, persegue nella sua attività. Essa si richiama a “De domo sua ad pontifices” ("Sulla propria casa, al collegio pontificale") che è un'orazione pronunciata nel 57 a.C. da Marco Tullio Cicerone contro Publio Clodio Pulcro allo scopo di riottenere l'area e i fondi per ricostruire la sua casa che gli era stata confiscata durante l'esilio e con una parte delle proprietà del Palatino consacrata alla dea Libertas; Cicerone dichiara questa consacrazione illegittima e, pertanto, come detto, richiede la restituzione di detta area ed i fondi per ricostruire la sua casa.
L'opera è decisamente molto complessa, poiché, allo scopo di convincere il collegio a perorare la sua causa, Cicerone articola la sua orazione, dapprima attaccando sia la mancanza di moralità del suo avversario sia la legittimità della sua carica, e, quindi, dei suoi provvedimenti, per poi accingersi, ma soltanto alla fine, a parlare della restituzione della sua casa. In tutta l'orazione, Cicerone non manca mai, e questo è un dato molto importante, di sottolineare come egli sia difensore e salvezza della patria e come dalla sua parte vi fosse il favore degli dei.
Nell'esordio, Cicerone parla degli uomini che hanno ricevuto il potere in terra dagli dei, affinché venisse assicurato il rispetto e il mantenimento sia delle norme religiose sia dello Stato. Per tale motivo, coloro ai quali veniva affidato questo impegno, dovevano essere cittadini illustri e autorevoli, rispettosi del mos maiorum, esempi di moralità. Tale inizio è una premessa con cui Cicerone vuole invitare i pontefici a prendere coscienza dell'uso scellerato del potere da parte di Clodio, che lui chiama «funesta rei publicae pestis», "funesta cancrena dello Stato", proprio perché questi stava creando problemi con le sue bande armate: i clodiani.
Dopodiché, Cicerone si difende dalla prima accusa di Clodio. Questi gli rimproverava di aver meditato un colpo di Stato sul Campidoglio in favore di Gneo Pompeo Magno, proponendo la concessione di poteri straordinari per l'annona, soluzione che i due consoli Gneo Cornelio Lentulo Marcellino e Quinto Cecilio Metello Nepote Minore (a cui Cicerone si sentiva debitore poiché avevano appoggiato il suo ritorno in patria) volevano attuare per risolvere la grave carestia che aveva colpito Roma. Il 7 settembre del 57, infatti, il senato si riunì nel tempio della Concordia sotto il Campidoglio per discuterne. Metello venne ferito dai clodiani, che infervoravano la folla, e così la riunione si spostò sul Campidoglio stesso. Cicerone si recò, in quanto senatore ed essendo suo dovere (questa è la motivazione che fornisce a Clodio che l'accusava del colpo di stato), alla seduta e appoggiò la proposta dei due consoli.
L'oratore prosegue cercando di dimostrare come lo stesso Clodio avesse fatto uso e concesso poteri straordinari, e come quindi fosse ipocrita la sua reticenza di non volerne farne uso anche in quell'occasione. Clodio, tribuno della plebe, fece approvare una legge sulle province consolari che assegnava a Pisone e Gabinio le province in cui i consoli si sarebbero recati come proconsoli l'anno seguente (a Pisone fu affidata la Macedonia e a Gabinio la Cilicia poi mutata in Siria); aveva concesso a Catone una carica straordinaria a Cipro soltanto per poterlo allontanare da Roma; aveva concesso la Cilicia, provincia consolare, ad un pretore (Balbo) con provvedimento straordinario. Questi e molti altri sono gli esempi con cui Cicerone cerca di dimostrare la sua tesi. Inoltre sottolinea come già precedentemente si fossero affidati poteri straordinari a Pompeo (imperium extraordinarium) e come questi fosse stato risolutivo ed efficace per il bene dello Stato, e come fosse il popolo stesso, tra cui anche i sostenitori di Clodio, a chiedere una soluzione per la situazione.
Cicerone poi continua nell'orazione sottolineando come anche il suo stesso esilio, di cui artefice fu proprio Clodio, fu una legge straordinaria, poiché a condannarlo fu una legge ad personam, espressamente vietata dalle leggi sacre (si chiamavano sacratae quelle le leggi ottenute principalmente dai plebei dopo la secessione sul monte detto sacro) e dalle Dodici Tavole. L'autore, inoltre, ricorda come lui non fu mai sottoposto a processo, ma come comunque dovette scontare ugualmente una pena; per questo motivo si definisce indemnatus.
Successivamente, prosegue considerando come lo stesso tribunato di Clodio, non fosse valido e di conseguenza anche i suoi provvedimenti. A sostegno di tale tesi, ricorda come Clodio all'età di 35 anni, fosse stato adottato dal ventenne Fonteio di famiglia plebea, solo e soltanto per poter assumere la carica di tribuno della plebe destinata a tali famiglie. Infatti non era stato adottato per l'incapacità della moglie di Fonteio di generare prole. Non aveva, come di consueto, abbracciato i sacra della famiglia adottiva. Nel giorno in cui nei comizi curiati fu discussa la sua adozione, furono osservati dei segni celesti sfavorevoli che però non furono presi in considerazione, mentre lui invece sosteneva che tutti i provvedimenti di Cesare presi in violazione degli auspici, venissero annullati. Infine tra la proposta di legge e la sua approvazione, non trascorse il tempo prestabilito dalle leggi. La lex Clodia de capite civis Romani, stabiliva la pena dell'esilio per chi avesse deliberato una condanna a morte senza concedere la provocatio ad populum, cioè la facoltà per ciascun cittadino romano di ricorrere in appello al popolo per evitare la condanna. Cicerone aveva agito proprio in questo modo contro i catilinari. In più Clodio sosteneva che Cicerone aveva presentato un falso senatoconsulto. Cicerone, quindi, sottolinea come quest'ultima accusa non fosse vera, e come invece la lex Clodia fosse stata fatta proprio per colpirlo, perché secondo quanto stabilito dalla stessa, anche Catone sarebbe dovuto andare in esilio, ed invece fu allontanato con il pretesto dell'incarico a Cipro. Inoltre nel provvedimento conseguente alla sua colpa, contro Cicerone, vi era il divieto di ospitarlo, e non l'ordine di abbandonare Roma. Lasciare Roma, sottolinea l'autore, fu una decisione presa da lui stesso e non per vigliaccheria come Clodio gli rinfacciò, ma per difendere gli innocenti che altrimenti sarebbero stati colpiti (anche se sappiamo sempre dalla sua orazione che, dopo il suo allontanamento, furono ugualmente perseguitati sua moglie, suo fratello, i suoi figli e i suoi amici). Soltanto dopo la sua partenza, fu fatta una legge apposita che lo condannava all'esilio: lex de exilio Ciceronis. L'oratore, ricorda anche come la sua stessa pena fu inflitta al padre naturale di Clodio solo e soltanto per non essersi presentato in giudizio (Appio Claudio Pulcro, partigiano di Silla, nel 90 fu citato in giudizio da un tribuno della plebe), sottolineando come invece lui fosse stato privato di tale diritto.
Cicerone attacca, inoltre, la mancanza di moralità di Clodio, manifestatasi nell'occasione della vicenda della Bona Dea, gesto con cui era stata infangata la casa del pontefice massimo; e i continui rapporti incestuosi con la sorella Clodia.
Dopidichè, Cicerone si appresta, finalmente, a parlare della sua casa. La lex Licinia de legum latione e l'Aebutia, prevedevano che l'esecuzione d'un provvedimento non fosse affidata al magistrato proponente, ai suoi colleghi o parenti. Clodio invece si era assunto la direzione dei lavori per demolire la casa di Cicerone e costruirvi un tempio alla Libertà. Inoltre vi aveva posto una statua, a rappresentare tale valore, che però Cicerone riferisce essere stata sottratta dal fratello di Clodio, dalla tomba di una meretrice greca, un ornamento quindi inadatto alla sacralità di un tempio. L'autore riferisce anche come la decisione sulla proprietà fu presa non dal collegio dei pontefici, che non fu nemmeno chiamato per deliberare. L'unico pontefice presente era il più giovane, il quale altro non era se non il fratello della moglie di Clodio: Pinario Natta. Quindi non vi era alcun diritto di rituale pontificale. Non fu chiesto nemmeno il parere della plebe e la legge Papiria vietava di consacrare degli edifici senza l'ordine della plebe. Dopo aver accusato Clodio di aver cercato di comprare il terreno attraverso un prestanome (nessuno volle comprarlo, nemmeno dopo che fu messo all'asta) e aver avvelenato Q. Seio Postumo, il quale possedeva il terreno adiacente e si era rifiutato di venderlo, Cicerone conclude il discorso, chiedendo la restituzione della terra e la ricostruzione della propria casa.
Orbene, può sembrare una pretesa arrogante, da parte di Cicerone, il chiedere non solo la restituzione del terreno ma anche la ricostruzione della propria casa. Tuttavia dobbiamo considerare il significato politico e simbolico dell'accaduto. Possedere una casa posta sul Palatino, uno dei sette colli di Roma, dove si dice la città fosse stata fondata, significava non solo avere un ruolo predominante nella civitas, ma anche essere riconosciuto tra i padri della res publica, tra i fondatori della patria. Aver tolto la casa a Cicerone, quindi, significava impedirgli di riavere il suo ruolo di grande importanza e di essere riammesso nella società.
Non v’è dubbio che questa difesa della casa più appassionata della storia debba servirci proprio oggi da esempio, in quanto per noi non è in senso dispregiativo una“Cicero pro domo sua”, una mera difesa di un interesse particolarissimo ma piuttosto la giusta tutela di un bene prezioso, magari costato anni di duro sacrificio e che pertanto va preservato. E noi restiamo dell’idea che resti necessario assumere la difesa di uno dei diritti fondamentali della Costituzione che, in quanto tale, proprio come ci faceva ben comprendere Cicerone, riveste un carattere sacro.
Avv.Luigi Grillo
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